Crying in H Mart è un memoir scritto dalla giovane autrice - classe 1989 - nel tentativo di elaborare il lutto per la prematura scomparsa della madre, portata rapidamente via da un cancro quando lei aveva venticinque anni. Questo lo troverete scritto un po' ovunque si parli di questo libro, poi ci sarà chi si sofferma di più sul rapporto madre-figlia, riflettendo quasi di riflesso sul proprio rapporto con la propria madre, con tutti i faticosi sentimenti che questo alle volte può suscitare. Di sicuro qualcun altro si riconoscerà nella ribellione adolescenziale di Michelle, e nella ricucitura del legame coi genitori una volta che diventare grandi consente di porre le giuste distanze. E ci sarà invece chi resterà colpito o affascinato o troverà della familiarità nel tema del cibo come linguaggio affettivo, cucinare per qualcuno sinonimo del prendersene cura, piatti e snack dell'infanzia una sorta di macchina del tempo per ricordare, ritornare, riparare. E sì, c'è tutto questo, ma c'è un'altra cosa che io ho sentito come il cuore pulsante di Crying in H Mart, quella che tra tutte ha colpito più a fondo: la realtà complessa, meravigliosa ma al contempo faticosa, del nascere e crescere con origini miste.
Michelle Zauner |
Un po' come quando poi vidi per la prima volta la copertina di Crying in H Mart tra i libri di prossima pubblicazione in lingua inglese nella sezione esplora di Goodreads. Capita di avere un colpo di fulmine con la copertina di un libro, no? Quel rosso così acceso ed intenso, due paia di bacchette che tengono una manciata di noodles che scendono ai lati come tende da una finestra, ed il titolo che sembra scritto a mano, di fretta, con un pennarello nero indelebile.
Ricordo di aver letto a malapena il trafiletto descrittivo prima di sapere già di volerlo leggere, e non so se fu allora o più tardi che collegai il nome di Michelle Zauner alla ragazza dai capelli corvini e le braccia tatuate dei Japanese Breakfast. Fatto sta che quando questo avvenne non ebbi più dubbi sul fatto che io e Michelle avevamo qualcosa da dirci, e Crying in H Mart è stato uno degli unici due libri che nel 2022 mi hanno fatta correre in libreria alla loro pubblicazione in Italia.
Michelle nasce a Seoul e cresce in America, padre americano e madre coreana. Ogni due anni, con un lungo viaggio intercontinentale, lei e sua madre tornano in visita alla città d'origine ed alla famiglia materna; in America, sua madre fa del suo meglio per trasmetterle comunque la propria cultura, il che avviene in primo luogo attraverso il cibo, e secondariamente tramite un modello educativo rigido, severo, fatto di aspettative difficili da soddisfare, specialmente crescendo in Occidente. Sotto questa scorza dura, però, Michelle sa che nei suoi confronti sua madre è tutta affetto e protezione.
Dicevo che ciò che mi ha parlato di più in questo racconto autobiografico è stato ciò che riguarda l'avere origini miste. Non ho mai fatto mistero, neanche sul web - anzi, l'ho scritto persino nella bio - di essere nata da padre italiano e madre svedese. Chiamare casa due luoghi geograficamente e culturalmente distanti significa avere due case ma non possederne a pieno nessuna, anche se crescendo ho capito che casa non è data mai da un luogo, quanto dalle persone che amiamo (e che ci amano). Michelle non era americana in America ("Sei cinese? Sei giapponese? E allora cosa sei?") e di certo non era abbastanza coreana a Seoul, proprio come io pur essendo cresciuta qui non potrò mai sentirmi totalmente italiana, ed in Svezia non ho mai smesso di sentirmi una straniera.
Fare spazio a due diverse culture dentro di sé richiede uno sforzo costante, quello di mantenere vive le tradizioni della propria metà più distante, significa avere nostalgie e mancanze cucite nel dna, significa aspettare l'estate per esprimersi in un'altra lingua e sì, Michelle ha ragione, lo spostamento avviene già sull'aereo - nel suo caso hostess minute, occhi con la doppia palpebra, pasti coreani e sua madre che si tuffa felice in una rivista finalmente scritta nella sua lingua madre. Nel mio caso, invece, si respirava sin dal gate in aeroporto un'improvvisa tranquillità, i toni delle voci molto più tranquilli e pacati, aumentava nettamente la percentuale di capelli biondi e biondissimi e di occhi chiari, le divise blu delle hostess della Scandinavian Airlines, il tè caldo col latte e finché eravamo abbastanza piccoli un gioco omaggio con cui intrattenerci durante il volo.
Michelle ha ragione anche su un'altra cosa, ovvero sul ruolo fondamentale che gioca il cibo in questodelicato rapporto di equilibri, di distanze e di ritorni. Non mi hanno annoiata per niente i suoi elenchi di pietanze tradizionali, il suo citare senza indugio gli ingredienti, i nomi dei bollenti e ricchi stufati, i numerosi contorni che accompagnano sempre le portate principali e di cui ogni frigo casalingo coreano che si rispetti è sempre ben fornito, il suo soffermarsi sulle varie tipologie di kimchi.
Perché tra le righe ci leggevo le sere d'estate in cui per mia somma gioia potevo indossare felpe leggere e la notte non scendeva mai del tutto, e mio nonno avrebbe grigliato sul barbecue spessi tranci di salmone fresco, e preparato verdure al forno inserendo gli ortaggi un po' alla volta, ognuno secondo il suo corretto tempo di cottura, cosicché ogni pezzo di patata, ogni rondella di zucchina, ogni striscia di peperone avrebbe avuto la consistenza perfetta, mentre mia nonna si occupava della salsina bianca a base di panna acida e cetriolo.
Ci vedevo il grande congelatore in cui tenevano le provviste nella casa al mare, e che prima del nostro arrivo mia nonna avrebbe riempito di köttbullar e biffar e kanelbullar ed ogni tipo di biscotti e dolcetti fatti a mano per la fika, la pausa caffè del pomeriggio quotidiana. Ci vedevo la sua rabarberpaj, la torta che preparava coi rabarbari del suo orto e che andava mangiata appena tirata fuori dal forno, perché era importante che il palato godesse del contrasto tra il caldo della torta ed il freddo della crema versata sopra o accanto. Ci vedevo ogni sorta di cibo comprato al supermercato, di cui sentivamo la mancanza tutto l'anno e di cui sfogare la voglia nell'arco di due o tre settimane. Ci ho visto il fatto che mia madre ha iniziato a replicare certe ricette di mia nonna soltanto da quando lei non c'è più.
Michelle ha ragione su tutto, e temo abbia ragione anche su quanto sia complicato mantenere viva quella metà proveniente da un altrove rispetto al posto in cui vivi una volta che mancano le persone che ti facevano sentire legato ad esso. Su quanto sia spaventoso sapere di rischiare di perderla, quella metà, quanto sia importante cercare di mantenerla viva. Da quando i miei nonni non ci sono più non mi capita mai di rispondere al telefono e parlare in una lingua diversa da quella che uso sempre, sono già passati anni dall'ultima volta che mi sono diretta a nord, l'ultima è stata proprio per dir loro addio, e già da tempo quel tornare un tempo fatto solo di estrema gioia ed entusiasmo al massimo grado è diventato invece un percorso dolceamaro, fatto di incurabili nostalgie e malinconie che hanno inizio nel momento stesso in cui entro nel piccolo ed accogliente aeroporto della nostra città, ben consapevole di non poter scorgere i miei nonni tra la gente, bellissimi e sempre eleganti, a braccia aperte, felici come nessun altro di vederci.
Inconsapevolmente, anche io avevo già iniziato a preservare la mia metà lontana attraverso il cibo. Compro bottiglie di glögg da Ikea ogni dicembre, mi lancio nell'impasto dei lussekatter per Santa Lucia, rimpiango tutto ciò che non è replicabile per assenza di ingredienti.
Questo è diventato un piccolo memoir a sé, piuttosto che il commento ad un libro. Come forse avrete capito, mi sono sentita sempre più vicina a Michelle, che mi ha fatta affezionare alla sua granitica madre coreana, che fin da piccola le diceva: "Risparmia le lacrime per quando muore tua madre!". E' stato straziante leggere della sua malattia, di come Michelle abbia fatto del suo meglio per starle vicino, di come i ruoli si siano invertiti ed abbia tentato, imparando passo per passo a preparare i piatti coreani preferiti da sua madre, di prendersi cura di lei tramite l'atto di cucinare e di nutrirla. Nomina più volte persino Maangchi, una signora coreana famosa perché su youtube insegna al mondo a preparare tutti i piatti della propria ricchissima tradizione, dai più semplici a quelli più complessi, e dalla quale anni fa imparai a fare il bibimbap.
Già, perché c'è un'ultima cosa che non ho detto, ed è che persino un po' di Corea è finita in casa mia, e un po' di casa mia è finita in Corea. Mio fratello si era innamorato di una ragazza di Seoul, poi con la ragazza è finita ma con la città no. E così, tra un solcare oceani e l'altro, ogni tanto mi arrivano ottimi prodotti per la skincare, pacchetti di noodles piccantissimi, scatolette di kimchi e confezioni di gouchuchang. E forse sarà solo per un periodo, forse per il resto del nostro tempo. D'altronde, l'ho detto, quando nasci con origini miste distanze, nostalgie, partenze e ritorni ce li hai cuciti nel dna.