venerdì 27 gennaio 2023

Crying in H Mart, Michelle Zauner

Crying in H Mart è un memoir scritto dalla giovane autrice - classe 1989 - nel tentativo di elaborare il lutto per la prematura scomparsa della madre, portata rapidamente via da un cancro quando lei aveva venticinque anni. Questo lo troverete scritto un po' ovunque si parli di questo libro, poi ci sarà chi si sofferma di più sul rapporto madre-figlia, riflettendo quasi di riflesso sul proprio rapporto con la propria madre, con tutti i faticosi sentimenti che questo alle volte può suscitare. Di sicuro qualcun altro si riconoscerà nella ribellione adolescenziale di Michelle, e nella ricucitura del legame coi genitori una volta che diventare grandi consente di porre le giuste distanze. E ci sarà invece chi resterà colpito o affascinato o troverà della familiarità nel tema del cibo come linguaggio affettivo, cucinare per qualcuno sinonimo del prendersene cura, piatti e snack dell'infanzia una sorta di macchina del tempo per ricordare, ritornare, riparare. E sì, c'è tutto questo, ma c'è un'altra cosa che io ho sentito come il cuore pulsante di Crying in H Mart, quella che tra tutte ha colpito più a fondo: la realtà complessa, meravigliosa ma al contempo faticosa, del nascere e crescere con origini miste.

Michelle Zauner
Bizzarro come a volte l'universo sembri volerci spingere dolcemente in una direzione specifica. Perché tempo fa, ben prima che incontrassi questo libro, durante una delle mie tante esplorazioni musicali mi imbattei nei Japanese Breakfast, una band che spazia tra il pop sperimentale e l'indie rock, di cui Michelle Zauner è la voce e - oserei dire - l'anima. La loro musica non mi colpì al punto da inserirla tra i miei ascolti abituali, ma mi restarono comunque impressi perché tutto ciò che avevo visto - il loro nome, i video musicali, il look di Michelle - mi aveva fatto istintiva simpatia. 

Un po' come quando poi vidi per la prima volta la copertina di Crying in H Mart tra i libri di prossima pubblicazione in lingua inglese nella sezione esplora di Goodreads. Capita di avere un colpo di fulmine con la copertina di un libro, no? Quel rosso così acceso ed intenso, due paia di bacchette che tengono una manciata di noodles che scendono ai lati come tende da una finestra, ed il titolo che sembra scritto a mano, di fretta, con un pennarello nero indelebile.

Ricordo di aver letto a malapena il trafiletto descrittivo prima di sapere già di volerlo leggere, e non so se fu allora o più tardi che collegai il nome di Michelle Zauner alla ragazza dai capelli corvini e le braccia tatuate dei Japanese Breakfast. Fatto sta che quando questo avvenne non ebbi più dubbi sul fatto che io e Michelle avevamo qualcosa da dirci, e Crying in H Mart è stato uno degli unici due libri che nel 2022 mi hanno fatta correre in libreria alla loro pubblicazione in Italia.

Michelle nasce a Seoul e cresce in America, padre americano e madre coreana. Ogni due anni, con un lungo viaggio intercontinentale, lei e sua madre tornano in visita alla città d'origine ed alla famiglia materna; in America, sua madre fa del suo meglio per trasmetterle comunque la propria cultura, il che avviene in primo luogo attraverso il cibo, e secondariamente tramite un modello educativo rigido, severo, fatto di aspettative difficili da soddisfare, specialmente crescendo in Occidente. Sotto questa scorza dura, però, Michelle sa che nei suoi confronti sua madre è tutta affetto e protezione.

Dicevo che ciò che mi ha parlato di più in questo racconto autobiografico è stato ciò che riguarda l'avere origini miste. Non ho mai fatto mistero, neanche sul web - anzi, l'ho scritto persino nella bio - di essere nata da padre italiano e madre svedese. Chiamare casa due luoghi geograficamente e culturalmente distanti significa avere due case ma non possederne a pieno nessuna, anche se crescendo ho capito che casa non è data mai da un luogo, quanto dalle persone che amiamo (e che ci amano). Michelle non era americana in America ("Sei cinese? Sei giapponese? E allora cosa sei?") e di certo non era abbastanza coreana a Seoul, proprio come io pur essendo cresciuta qui non potrò mai sentirmi totalmente italiana, ed in Svezia non ho mai smesso di sentirmi una straniera.

Fare spazio a due diverse culture dentro di sé richiede uno sforzo costante, quello di mantenere vive le tradizioni della propria metà più distante, significa avere nostalgie e mancanze cucite nel dna, significa aspettare l'estate per esprimersi in un'altra lingua e sì, Michelle ha ragione, lo spostamento avviene già sull'aereo - nel suo caso hostess minute, occhi con la doppia palpebra, pasti coreani e sua madre che si tuffa felice in una rivista finalmente scritta nella sua lingua madre. Nel mio caso, invece, si respirava sin dal gate in aeroporto un'improvvisa tranquillità, i toni delle voci molto più tranquilli e pacati, aumentava nettamente la percentuale di capelli biondi e biondissimi e di occhi chiari, le divise blu delle hostess della Scandinavian Airlines, il tè caldo col latte e finché eravamo abbastanza piccoli un gioco omaggio con cui intrattenerci durante il volo.

Michelle ha ragione anche su un'altra cosa, ovvero sul ruolo fondamentale che gioca il cibo in questo
delicato rapporto di equilibri, di distanze e di ritorni
. Non mi hanno annoiata per niente i suoi elenchi di pietanze tradizionali, il suo citare senza indugio gli ingredienti, i nomi dei bollenti e ricchi stufati, i numerosi contorni che accompagnano sempre le portate principali e di cui ogni frigo casalingo coreano che si rispetti è sempre ben fornito, il suo soffermarsi sulle varie tipologie di kimchi.

Perché tra le righe ci leggevo le sere d'estate in cui per mia somma gioia potevo indossare felpe leggere e la notte non scendeva mai del tutto, e mio nonno avrebbe grigliato sul barbecue spessi tranci di salmone fresco, e preparato verdure al forno inserendo gli ortaggi un po' alla volta, ognuno secondo il suo corretto tempo di cottura, cosicché ogni pezzo di patata, ogni rondella di zucchina, ogni striscia di peperone avrebbe avuto la consistenza perfetta, mentre mia nonna si occupava della salsina bianca a base di panna acida e cetriolo. 

Ci vedevo il grande congelatore in cui tenevano le provviste nella casa al mare, e che prima del nostro arrivo mia nonna avrebbe riempito di köttbullar e biffar e kanelbullar ed ogni tipo di biscotti e dolcetti fatti a mano per la fika, la pausa caffè del pomeriggio quotidiana. Ci vedevo la sua rabarberpaj, la torta che preparava coi rabarbari del suo orto e che andava mangiata appena tirata fuori dal forno, perché era importante che il palato godesse del contrasto tra il caldo della torta ed il freddo della crema versata sopra o accanto. Ci vedevo ogni sorta di cibo comprato al supermercato, di cui sentivamo la mancanza tutto l'anno e di cui sfogare la voglia nell'arco di due o tre settimane. Ci ho visto il fatto che mia madre ha iniziato a replicare certe ricette di mia nonna soltanto da quando lei non c'è più.

Michelle ha ragione su tutto, e temo abbia ragione anche su quanto sia complicato mantenere viva quella metà proveniente da un altrove rispetto al posto in cui vivi una volta che mancano le persone che ti facevano sentire legato ad esso. Su quanto sia spaventoso sapere di rischiare di perderla, quella metà, quanto sia importante cercare di mantenerla viva. Da quando i miei nonni non ci sono più non mi capita mai di rispondere al telefono e parlare in una lingua diversa da quella che uso sempre, sono già passati anni dall'ultima volta che mi sono diretta a nord, l'ultima è stata proprio per dir loro addio, e già da tempo quel tornare un tempo fatto solo di estrema gioia ed entusiasmo al massimo grado è diventato invece un percorso dolceamaro, fatto di incurabili nostalgie e malinconie che hanno inizio nel momento stesso in cui entro nel piccolo ed accogliente aeroporto della nostra città, ben consapevole di non poter scorgere i miei nonni tra la gente, bellissimi e sempre eleganti, a braccia aperte, felici come nessun altro di vederci.

Inconsapevolmente, anche io avevo già iniziato a preservare la mia metà lontana attraverso il cibo. Compro bottiglie di glögg da Ikea ogni dicembre, mi lancio nell'impasto dei lussekatter per Santa Lucia, rimpiango tutto ciò che non è replicabile per assenza di ingredienti.

Questo è diventato un piccolo memoir a sé, piuttosto che il commento ad un libro. Come forse avrete capito, mi sono sentita sempre più vicina a Michelle, che mi ha fatta affezionare alla sua granitica madre coreana, che fin da piccola le diceva: "Risparmia le lacrime per quando muore tua madre!". E' stato straziante leggere della sua malattia, di come Michelle abbia fatto del suo meglio per starle vicino, di come i ruoli si siano invertiti ed abbia tentato, imparando passo per passo a preparare i piatti coreani preferiti da sua madre, di prendersi cura di lei tramite l'atto di cucinare e di nutrirla. Nomina più volte persino Maangchi, una signora coreana famosa perché su youtube insegna al mondo a preparare tutti i piatti della propria ricchissima tradizione, dai più semplici a quelli più complessi, e dalla quale anni fa imparai a fare il bibimbap

Già, perché c'è un'ultima cosa che non ho detto, ed è che persino un po' di Corea è finita in casa mia, e un po' di casa mia è finita in Corea. Mio fratello si era innamorato di una ragazza di Seoul, poi con la ragazza è finita ma con la città no. E così, tra un solcare oceani e l'altro, ogni tanto mi arrivano ottimi prodotti per la skincare, pacchetti di noodles piccantissimi, scatolette di kimchi e confezioni di gouchuchang. E forse sarà solo per un periodo, forse per il resto del nostro tempo. D'altronde, l'ho detto, quando nasci con origini miste distanze, nostalgie, partenze e ritorni ce li hai cuciti nel dna.


martedì 6 dicembre 2022

Red Girls, Sakuraba Kazuki

 Il realismo magico è un genere letterario che associo all'estate ed al Sudamerica. Colpa di un afoso luglio dei sedici anni in cui mi persi ne La casa degli spiriti di Isabel Allende, mi sa. Chi l'avrebbe immaginato che invece poteva annidarsi anche nell'autunno giapponese – cosa che, a posteriori, mi sembra così scontata: il Giappone ha forse la tradizione folkloristica più affascinante del mondo, ed il realismo magico non può che trovare terreno fertile in mezzo alle sue innumerevoli e suggestive leggende.

Sono arrivata a Red Girls in un modo piuttosto comune tra noi lettori, ovvero innamorandomi della copertina coi suoi toni caldi rosso arancio, intrisi d'autunno e pieni di foglie prossime a lasciare l'albero che le ha protette e cullate finché ha potuto. Non avendo fatto in tempo a leggerlo l'autunno scorso, quando già mi ero ripromessa di concedergli spazio, mi ha aspettata pazientemente per un anno intero, e per ripagarlo di tanta pazienza io gli ho dedicato il mio intero Ottobre.

L'autrice Sakuraba Kazuki, che oltre per la sua carriera iniziata mentre era ancora al college è nota in patria per essere un'avida bibliofila in grado di leggere oltre quattrocento libri l'anno, racconta nella postfazione al romanzo – redatta in occasione della ristampa economica – di come Red Girls è nato, ovvero quasi su esplicita richiesta del suo editor: Sakuraba, il suo prossimo lavoro deve essere il suo primo capolavoro, le aveva detto, sono certo che possa scrivere un romanzo totale. Un grande romanzo che contenga (...) tutto. L'editor non aveva fatto mistero neanche di come gli sarebbe piaciuto che questo suo primo capolavoro raccontasse una storia attraverso tre generazioni di donna. Sakuraba dice di essersi sentita al contempo lusingata e spaventata da una richiesta simile, ma già durante quell'incontro la sua fantasia aveva iniziato a correre, pensando ai grandi romanzi che lei stessa aveva letto durante la sua vita, e rincorrendo subito qualche primo abbozzo di trama. Tra le sue prime fonti d'ispirazione, e forse le più importanti, cita proprio La casa degli spiriti della Allende, Cent'anni di solitudine di Gabriel García Márquez e persino Orlando di Virginia Woolf. Giusto quest'ultimo mi è giunto un po' inaspettato, forse solo perché non l'ho ancora letto, ma l'omaggio o il rifarsi ai primi due era piuttosto evidente e, mi sento di dire, anche dignitosamente riuscito (tenendo conto di quanto questi punti di riferimento siano di alto livello).

Red Girls è un corposo romanzo di 447 pagine, divise in tre parti che vanno dal 1953 ai giorni nostri. La narratrice la conosceremo meglio solo nella terza ed ultima parte, della quale sarà anche protagonista, perché come aveva suggerito l'editor in queste pagine si racconta una storia ad ampissimo respiro, attraverso tre generazioni di donne appartenenti ad una prestigiosa famiglia: gli Akakuchiba, che vivono in una grande dimora rossa che domina dall'alto il piccolo villaggio di Benimidori. La parte più riuscita è senz'altro la prima, incentrata sulla nonna della narratrice: Man'yō, abbandonata nel villaggio quando era solo una bambina dalla gente della montagna – un popolo misterioso del quale si sa ben poco, persone dai tratti scuri che conducono un'esistenza nomade, dei quali gli abitanti di Benimidori diffidano ma che richiamano con un segnale di fumo ogni qualvolta si verifica una "morte accidentale", come viene da loro chiamato il suicidio. Allora quelli della montagna scendono, sistemano il corpo dentro una cassa di legno troppo piccola per contenere una persona intera, e chissà dove poi li portano. Man'yō viene accolta da una giovane coppia, che pur non avendo molti mezzi la crescerà insieme ai tanti altri figli col medesimo sincero amore. Fuori di casa però Man'yō non ha vita facile: gli altri abitanti del villaggio la giudicano diversa a causa dei suoi tratti marcati, che in modo così evidente rivelano le sue origini, e nemmeno i bambini daranno segno di accettarla. Per qualche strano motivo poi, Man'yō non riuscirà mai ad imparare a leggere e scrivere, restando un'analfabeta e frequentando la scuola senza mai saper decodificare ciò che si trova davanti in aula. In compenso, sin dalla tenera età, Man'yō scoprirà in sé una dote straordinaria: la chiaroveggenza. E' ancora bambina quando ha la sua prima visione, quella di un uomo con un occhio solo che vola alto nel cielo. Ovviamente non ha idea di chi quell'uomo possa essere, ma il suo volto dolce e sereno le scalda il cuore. Gli dà persino un nome, Monocchio, ed attraverserà gli anni che ha davanti nell'attesa di incontrarlo.

L'aspetto più affascinante del romanzo, ed in particolar modo della prima parte, è senz'altro l'ambientazione. Il villaggio di Benimidori ha un'architettura a terrazze, sovrastata nel punto più alto dall'immensa dimora degli Akakuchiba, padroni dell'Altoforno in cui si lavora il ferro, e la fabbrica è la fonte di sostentamento di gran parte della popolazione del villaggio. All'estremità opposta domina un'altra famiglia, che pur non avendo origini illustri come gli Akakuchiba si era arricchita nel settore delle costruzioni navali: i Kurobishi. La gente del villaggio era solita riferirsi alle due famiglie come i Rossi di sopra ed i Neri di sotto e tra le famiglie dei manovali del cantiere navale e quelle degli operai della fabbrica non scorreva buon sangue. La struttura a terrazze del villaggio sembra un simbolo della gerarchia sociale vigente, e tutto questo – in particolare l'importanza rivestita dall'Altoforno e dal lavoro in fabbrica, ma anche le atmosfere del villaggio – mi ha ricordato moltissimo uno dei miei film preferiti dello Studio Ghibli, ovvero La città incantata (il mio pensiero ricorrente mentre leggevo la prima parte è stato che chi ama gli anime del Sensei Miyazaki non può proprio lasciarsi sfuggire questo romanzo).

Nella seconda parte viene raccontata la storia di Kemari, una delle figlie di Man'yō nonché madre della voce narrante, che come già avevo accennato racconterà di sé nella terza ed ultima parte. Quest'ultima è proprio quella che ho trovato più debole e che forse poteva essere un filo snellita: Tōko – questo il nome della nipote della grande chiaroveggente – è un'ottima rappresentante dei millennials, generazione nella quale rientra a pieno, mancando di autostima e descrivendo la gioventù di cui fa parte come disillusa e priva di grandi ambizioni o ideali forti per i quali battersi. Alla lunga però l'apatia di cui si fa continuamente portavoce diventa pesante e stancante, fin quando non si troverà tra le mani un piccolo giallo da risolvere, che riguarda proprio la sua cara nonna; a quel punto il suo racconto ritrova finalmente una direzione più interessante da seguire, ma è un vero peccato che proprio la voce narrante che ci ha incantato con due terzi della storia rischia di stufarci col proprio disfattismo.

Oltre l'ambientazione, una cosa che ho apprezzato molto di questo romanzo è il racconto storico. Proprio come sanno fare i grandi scrittori che Sakuraba ha citato nella sua postfazione, in Red Girls la storia dei personaggi si intreccia alla Storia con la S maiuscola, del Giappone in primis ma mi sento di dire anche quella mondiale. Vengono citati tanti eventi cruciali del Novecento, dalla guerra fredda alla caduta del muro di Berlino, l'ingresso nelle case dei televisori, i riverberi della cultura occidentale nel paese del Sol Levante, il susseguirsi delle mode, la musica dei Beatles, il progredire della tecnologia e persino gli effetti che ha sulla mente di un bambino l'annuncio della fine del mondo allo scoccar del nuovo secolo. Il bambino in questione aveva fatto i dovuti calcoli, scoprendo che quando il mondo sarebbe finito lui sarebbe stato su per giù appena ventenne; dunque a che scopo andare a scuola, fare la fatica di relazionarsi con gli altri, in poche parole costruirsi la vita giorno dopo giorno se tutto sarebbe stato spazzato via così presto? Meglio starsene in camera a godersi la passione per i manga ed i videogiochi. Un argomento attualissimo, dato che viviamo in un'epoca in cui la fine sembra essere scientificamente dietro l'angolo, un pensiero con cui non è facile convivere e che non può non avere conseguenze sui più giovani.

Dal punto di vista storico, secondo me l'autrice descrive molto bene che cosa significasse benessere economico in un'epoca piuttosto che un'altra, i cambiamenti di costume intercorsi nel tempo nella società, il mutare dell'idea di prestigio sociale e l'Altoforno degli Akakuchiba che, attraversando i decenni, cerca di adattarsi alla contemporaneità talvolta riuscendo ed altrettante volte fallendo. Sorte che sicuramente è toccata ad un'infinità di industrie, se non ad interi settori economici, ed una storia della società giapponese che, almeno sulla carta, non sembra così diversa da quella occidentale.

Red Girls non sarà forse un romanzo esente da difetti, ma ha saputo trasportarmi lontano con le sue atmosfere suggestive. Tanto i personaggi quanto le loro vicende sono ben costruiti, sono tante le sottotrame, i legami che si intrecciano, gli amori, le morti, le scelte giuste e quelle sbagliate. Se ci si apre al respiro di questa storia ad alcuni di loro inevitabilmente ci si affeziona, ed arrivati alla fine si prova tutta la nostalgia possibile dei giorni di gloria della grande dimora rossa, dello yamaoroshi che in certe occasioni soffiava tanto forte da sembrare un presagio, delle foglie così rosse che dondolavano sui rami prima di ricoprire i giardini. Sembra ancora di vederli, quei corridoi infiniti e vuoti in cui prima di capirli sarebbe stato così facile perdersi.

Romanzo consigliatissimo a chi come me subisce il fascino del realismo magico, a chi ha amato le atmosfere de La città incantata ma anche, semplicemente, a chi ha voglia di lasciarsi cadere dentro una storia lunga, densa ed a suo modo avvolgente.