martedì 6 dicembre 2022

Red Girls, Sakuraba Kazuki

 Il realismo magico è un genere letterario che associo all'estate ed al Sudamerica. Colpa di un afoso luglio dei sedici anni in cui mi persi ne La casa degli spiriti di Isabel Allende, mi sa. Chi l'avrebbe immaginato che invece poteva annidarsi anche nell'autunno giapponese – cosa che, a posteriori, mi sembra così scontata: il Giappone ha forse la tradizione folkloristica più affascinante del mondo, ed il realismo magico non può che trovare terreno fertile in mezzo alle sue innumerevoli e suggestive leggende.

Sono arrivata a Red Girls in un modo piuttosto comune tra noi lettori, ovvero innamorandomi della copertina coi suoi toni caldi rosso arancio, intrisi d'autunno e pieni di foglie prossime a lasciare l'albero che le ha protette e cullate finché ha potuto. Non avendo fatto in tempo a leggerlo l'autunno scorso, quando già mi ero ripromessa di concedergli spazio, mi ha aspettata pazientemente per un anno intero, e per ripagarlo di tanta pazienza io gli ho dedicato il mio intero Ottobre.

L'autrice Sakuraba Kazuki, che oltre per la sua carriera iniziata mentre era ancora al college è nota in patria per essere un'avida bibliofila in grado di leggere oltre quattrocento libri l'anno, racconta nella postfazione al romanzo – redatta in occasione della ristampa economica – di come Red Girls è nato, ovvero quasi su esplicita richiesta del suo editor: Sakuraba, il suo prossimo lavoro deve essere il suo primo capolavoro, le aveva detto, sono certo che possa scrivere un romanzo totale. Un grande romanzo che contenga (...) tutto. L'editor non aveva fatto mistero neanche di come gli sarebbe piaciuto che questo suo primo capolavoro raccontasse una storia attraverso tre generazioni di donna. Sakuraba dice di essersi sentita al contempo lusingata e spaventata da una richiesta simile, ma già durante quell'incontro la sua fantasia aveva iniziato a correre, pensando ai grandi romanzi che lei stessa aveva letto durante la sua vita, e rincorrendo subito qualche primo abbozzo di trama. Tra le sue prime fonti d'ispirazione, e forse le più importanti, cita proprio La casa degli spiriti della Allende, Cent'anni di solitudine di Gabriel García Márquez e persino Orlando di Virginia Woolf. Giusto quest'ultimo mi è giunto un po' inaspettato, forse solo perché non l'ho ancora letto, ma l'omaggio o il rifarsi ai primi due era piuttosto evidente e, mi sento di dire, anche dignitosamente riuscito (tenendo conto di quanto questi punti di riferimento siano di alto livello).

Red Girls è un corposo romanzo di 447 pagine, divise in tre parti che vanno dal 1953 ai giorni nostri. La narratrice la conosceremo meglio solo nella terza ed ultima parte, della quale sarà anche protagonista, perché come aveva suggerito l'editor in queste pagine si racconta una storia ad ampissimo respiro, attraverso tre generazioni di donne appartenenti ad una prestigiosa famiglia: gli Akakuchiba, che vivono in una grande dimora rossa che domina dall'alto il piccolo villaggio di Benimidori. La parte più riuscita è senz'altro la prima, incentrata sulla nonna della narratrice: Man'yō, abbandonata nel villaggio quando era solo una bambina dalla gente della montagna – un popolo misterioso del quale si sa ben poco, persone dai tratti scuri che conducono un'esistenza nomade, dei quali gli abitanti di Benimidori diffidano ma che richiamano con un segnale di fumo ogni qualvolta si verifica una "morte accidentale", come viene da loro chiamato il suicidio. Allora quelli della montagna scendono, sistemano il corpo dentro una cassa di legno troppo piccola per contenere una persona intera, e chissà dove poi li portano. Man'yō viene accolta da una giovane coppia, che pur non avendo molti mezzi la crescerà insieme ai tanti altri figli col medesimo sincero amore. Fuori di casa però Man'yō non ha vita facile: gli altri abitanti del villaggio la giudicano diversa a causa dei suoi tratti marcati, che in modo così evidente rivelano le sue origini, e nemmeno i bambini daranno segno di accettarla. Per qualche strano motivo poi, Man'yō non riuscirà mai ad imparare a leggere e scrivere, restando un'analfabeta e frequentando la scuola senza mai saper decodificare ciò che si trova davanti in aula. In compenso, sin dalla tenera età, Man'yō scoprirà in sé una dote straordinaria: la chiaroveggenza. E' ancora bambina quando ha la sua prima visione, quella di un uomo con un occhio solo che vola alto nel cielo. Ovviamente non ha idea di chi quell'uomo possa essere, ma il suo volto dolce e sereno le scalda il cuore. Gli dà persino un nome, Monocchio, ed attraverserà gli anni che ha davanti nell'attesa di incontrarlo.

L'aspetto più affascinante del romanzo, ed in particolar modo della prima parte, è senz'altro l'ambientazione. Il villaggio di Benimidori ha un'architettura a terrazze, sovrastata nel punto più alto dall'immensa dimora degli Akakuchiba, padroni dell'Altoforno in cui si lavora il ferro, e la fabbrica è la fonte di sostentamento di gran parte della popolazione del villaggio. All'estremità opposta domina un'altra famiglia, che pur non avendo origini illustri come gli Akakuchiba si era arricchita nel settore delle costruzioni navali: i Kurobishi. La gente del villaggio era solita riferirsi alle due famiglie come i Rossi di sopra ed i Neri di sotto e tra le famiglie dei manovali del cantiere navale e quelle degli operai della fabbrica non scorreva buon sangue. La struttura a terrazze del villaggio sembra un simbolo della gerarchia sociale vigente, e tutto questo – in particolare l'importanza rivestita dall'Altoforno e dal lavoro in fabbrica, ma anche le atmosfere del villaggio – mi ha ricordato moltissimo uno dei miei film preferiti dello Studio Ghibli, ovvero La città incantata (il mio pensiero ricorrente mentre leggevo la prima parte è stato che chi ama gli anime del Sensei Miyazaki non può proprio lasciarsi sfuggire questo romanzo).

Nella seconda parte viene raccontata la storia di Kemari, una delle figlie di Man'yō nonché madre della voce narrante, che come già avevo accennato racconterà di sé nella terza ed ultima parte. Quest'ultima è proprio quella che ho trovato più debole e che forse poteva essere un filo snellita: Tōko – questo il nome della nipote della grande chiaroveggente – è un'ottima rappresentante dei millennials, generazione nella quale rientra a pieno, mancando di autostima e descrivendo la gioventù di cui fa parte come disillusa e priva di grandi ambizioni o ideali forti per i quali battersi. Alla lunga però l'apatia di cui si fa continuamente portavoce diventa pesante e stancante, fin quando non si troverà tra le mani un piccolo giallo da risolvere, che riguarda proprio la sua cara nonna; a quel punto il suo racconto ritrova finalmente una direzione più interessante da seguire, ma è un vero peccato che proprio la voce narrante che ci ha incantato con due terzi della storia rischia di stufarci col proprio disfattismo.

Oltre l'ambientazione, una cosa che ho apprezzato molto di questo romanzo è il racconto storico. Proprio come sanno fare i grandi scrittori che Sakuraba ha citato nella sua postfazione, in Red Girls la storia dei personaggi si intreccia alla Storia con la S maiuscola, del Giappone in primis ma mi sento di dire anche quella mondiale. Vengono citati tanti eventi cruciali del Novecento, dalla guerra fredda alla caduta del muro di Berlino, l'ingresso nelle case dei televisori, i riverberi della cultura occidentale nel paese del Sol Levante, il susseguirsi delle mode, la musica dei Beatles, il progredire della tecnologia e persino gli effetti che ha sulla mente di un bambino l'annuncio della fine del mondo allo scoccar del nuovo secolo. Il bambino in questione aveva fatto i dovuti calcoli, scoprendo che quando il mondo sarebbe finito lui sarebbe stato su per giù appena ventenne; dunque a che scopo andare a scuola, fare la fatica di relazionarsi con gli altri, in poche parole costruirsi la vita giorno dopo giorno se tutto sarebbe stato spazzato via così presto? Meglio starsene in camera a godersi la passione per i manga ed i videogiochi. Un argomento attualissimo, dato che viviamo in un'epoca in cui la fine sembra essere scientificamente dietro l'angolo, un pensiero con cui non è facile convivere e che non può non avere conseguenze sui più giovani.

Dal punto di vista storico, secondo me l'autrice descrive molto bene che cosa significasse benessere economico in un'epoca piuttosto che un'altra, i cambiamenti di costume intercorsi nel tempo nella società, il mutare dell'idea di prestigio sociale e l'Altoforno degli Akakuchiba che, attraversando i decenni, cerca di adattarsi alla contemporaneità talvolta riuscendo ed altrettante volte fallendo. Sorte che sicuramente è toccata ad un'infinità di industrie, se non ad interi settori economici, ed una storia della società giapponese che, almeno sulla carta, non sembra così diversa da quella occidentale.

Red Girls non sarà forse un romanzo esente da difetti, ma ha saputo trasportarmi lontano con le sue atmosfere suggestive. Tanto i personaggi quanto le loro vicende sono ben costruiti, sono tante le sottotrame, i legami che si intrecciano, gli amori, le morti, le scelte giuste e quelle sbagliate. Se ci si apre al respiro di questa storia ad alcuni di loro inevitabilmente ci si affeziona, ed arrivati alla fine si prova tutta la nostalgia possibile dei giorni di gloria della grande dimora rossa, dello yamaoroshi che in certe occasioni soffiava tanto forte da sembrare un presagio, delle foglie così rosse che dondolavano sui rami prima di ricoprire i giardini. Sembra ancora di vederli, quei corridoi infiniti e vuoti in cui prima di capirli sarebbe stato così facile perdersi.

Romanzo consigliatissimo a chi come me subisce il fascino del realismo magico, a chi ha amato le atmosfere de La città incantata ma anche, semplicemente, a chi ha voglia di lasciarsi cadere dentro una storia lunga, densa ed a suo modo avvolgente.