giovedì 23 giugno 2022

Persone normali, Sally Rooney

 Sally Rooney non ha bisogno di presentazioni, non più, non per chiunque sia anche vagamente interessato a cosa succede nel mondo letterario. In pochissimi anni, l'autrice irlandese si è guadagnata una fama non indifferente, ricevendo il plauso del pubblico e soprattutto della critica. Un fatto non da poco in un'epoca come la nostra, nella quale si fa presto a venir dimenticati per far spazio all'ultima sgargiante novità.

In questo ammetto tutto il mio incrollabile snobismo: dai casi editoriali mi tengo alla larga fin quando non smettono di essere tali, fin quando non smettono di essere sulla bocca - e sulle pagine Instagram - di tutti. E se in passato questo atteggiamento era più uno spigolo caratteriale che una scelta consapevole, col tempo ho avuto modo di sondarne rischi e delizie. Sono perfettamente consapevole che talvolta la cosiddetta massa ha ragione perché si sta parlando di qualcosa di oggettivamente pregevole, mentre in altre occasioni gli entusiasmi si devono evidentemente a qualche bizzarra tipologia di ubriacatura collettiva; in ogni caso, penso che continuerò ad avvicinarmi ai titoli sulla cresta dell'onda soltanto quando il mare si sarà un po' calmato.

Persone normali ad esempio lo comprai più di un anno fa, includendolo in uno degli ultimi bottini libreschi che mi sono concessa con gli annuali sconti Einaudi. E' il suo secondo romanzo, col quale l'autrice replicava il successo ottenuto con quello d'esordio (Parlarne tra amici). Pur avendolo lì sugli scaffali, però, sono riuscita ad ignorarlo per un sacco di tempo - più di un anno - e mi sono spinta a prenderlo in mano solo lo scorso maggio, non senza la mia borsa a mano colma di pregiudizio, puzza sotto al naso ed un pizzico di aria di sfida.

Già, perché qui entriamo in un territorio personale e leggermente spinato: Sally Rooney, senza averne alcuna colpa, condivide con la sottoscritta l'anno di nascita, ed anche se la cosa non ha un briciolo di senso sottopelle scorreva una scossa di competizione. Quindi saresti la voce dei millennials, eh. Vediamo un po' che sai fare. Questo è stato più o meno lo spirito con il quale il quattro maggio mi son seduta in poltrona, Persone normali aperto in grembo. E con mia estrema gioia, mi son dichiarata sconfitta su tutta la linea dopo la prima manciata di pagine: cara Sally, mi sa che sei proprio bravissima.

Descrivere di cosa parli Persone normali lo trovo relativamente importante. Dovrei dirvi che i protagonisti sono due, un ragazzo ed una ragazza, Connell e Marianne, che sono prima amici poi qualcosa di più poi forse amici, in un rapporto dai contorni dilatati fotografato in quegli anni complessissimi che comprendono la fine del liceo, l'inizio dell'università, della vita vera, la metamorfosi dolorosa del diventare adulti, un processo veramente darwiniano nel quale non necessariamente vanno avanti i più forti o più intelligenti, ma i soggetti più rapidi ed agili all'adattamento, e quindi alla sopravvivenza.

C'è quella transizione migratoria che in tanti conosciamo bene, dalla provincia alla città e ritorno, perché Connell e Marianne sono cresciuti nella cittadina di Carricklea - mai sentita nominare? Ecco, appunto - e come tutti gli altri, finito il liceo, devono andare in cerca dei posti in cui succedono le cose, per dirla col mio caro Vasco Brondi, che in Irlanda significa Dublino. Dublino, come ogni città, diventa per qualcuno la realizzazione di ogni aspettativa, di se stessi, una promessa profumata di futuro; per altri diventa invece l'opposto, un ingranaggio schiacciante, che calpesta e divora qualunque visione avessi mai avuto su chi un giorno saresti potuto essere. Di contro Carricklea, come ogni cittadina di provincia dalla quale ogni adolescente sulla faccia della terra non ha fatto altro che sognare di evadere, si fa angosciante ritorno per le feste comandate, oppure dolce ed accogliente rifugio in cui curare storture e stanchezze.

Di tutto questo, che pure è importante e non è neanche tutto ciò che la Rooney è riuscita a raccontare, sottolineo che m'importa molto poco. Non mi frega assolutamente nulla che i protagonisti si chiamino Connell e Marianne o di quello che fanno o non fanno nel corso di queste duecentotrentuno pagine: il punto è un altro, ovvero che - come penso ormai sappiamo tutti - la Letteratura, quella che si continua a leggere a secoli di distanza, è diventata tale perché ha saputo trattenere nelle sue pagine o il sapore di un'epoca, oppure delle caratteristiche universali dell'essere umano e di cosa significa muoversi attraverso la vita, continuando a comunicare col lettore scavalcando ogni limite di spazio e di tempo. Ecco, se qualcuno tra cento anni volesse sapere che aria tirava nel duemiladieci, io gli metterei in mano Persone normali di Sally Rooney, perché è proprio come se lo avesse imbottigliato in un'ampolla magica, decidendo al momento opportuno di riaprirla e scriverci questo romanzo.

Alla faccia della sua immensa popolarità e delle librerie inglesi che in occasione della pubblicazione del suo terzo romanzo decidono di aprire alle sette del mattino trovandosi la fila fuori - qualcosa che non succedeva dai tempi di Harry Potter, e che dovrebbe farci esultare negli anni in cui file simili si vedono solo per accaparrarsi l'ultimo iPhone - mi sono stupita di trovare in realtà una valanga di recensioni negative, al vetriolo direi, sotto Persone normali su Goodreads. Ne ho lette un bel po', e l'idea che mi sono fatta, senza peli sulla lingua, è che credo che certe volte ci si senta molto intelligenti a fare gli arguti a tutti i costi, raccattando quattro frecciatine - apparentemente - ben assestate verso qualcuno che qualcosa da dire ce l'ha sul serio.

Il famoso appellarsi al gusto personale non credo valga sempre e comunque. O meglio, vale sempre la libertà di dire se un libro è piaciuto o meno, ma dovrebbe essere accompagnato anche da una consapevolezza oggettiva su ciò che si è letto. Esistono libri belli, ben scritti che non mi sono piaciuti, così come esistono libri di qualità discutibile che però ho amato. Questo doppio binario di valori non andrebbe trascurato quando si legge, e ancor meno quando si decide di commentare un'opera.

Non ho amato particolarmente Connell e Marianne. Dalla prima pagina all'ultima non me ne è fregato quasi niente né del loro rapporto né di cosa, nella pratica, stessero facendo. La vera protagonista di questo romanzo secondo me è l'atmosfera, il sapore di un periodo che sembra dietro l'angolo ed invece è già passato remoto. Ho ritrovato in queste righe dei pensieri che pensavo di aver fatto solo io, mai ritrovati da nessuna parte, e li avevo attribuiti ad un mio essere strana, esagerata, ai posti in cui mi trovavo, al tipo di persone che avevo attorno; invece me li sono ritrovati tali e quali, lucidissimi, messi nero su bianco da una coetanea che ha vissuto tutt'altra vita. Il che mi ha fatto immaginare una Sally Rooney che si guarda attorno, da sola, nei corridoi del Trinity College e si sente, e pensa, esattamente ciò che pensavo e sentivo io, da sola, guardandomi attorno nei corridoi de La Sapienza, ricordandomi che esiste un filo invisibile, sottilissimo ma dannatamente resistente che corre tra Roma e Dublino ed un'infinità di altri punti che si potrebbero puntare alla cieca sul mappamondo.

E forse sono io che quegli anni li ho vissuti male, forse sono io che è dal momento esatto in cui li vivevo che pensavo fosse importante raccontarli, forse sono io che ne conosco e ricordo l'esatto sapore - il rumore dei treni regionali, dei luoghi deserti la mattina presto, delle chiacchiere leggere che pesano sulla lingua, della musica sempre nelle orecchie, degli anfibi slacciati, dei capelli tinti, degli stomaci brontolanti e le sigarette che fumava la Nana giusta, dei rapporti iniziati senza motivo, dei vuoti riempiti di camminate estenuanti, dei libri che salvano un po' ma mai abbastanza, delle persone che se ne vanno ma ci sono sempre, dei chilometri che separano proprio - guarda caso - Roma e Dublino. Forse è per questo, forse è perché tutte queste cose le ho conosciute e le ricordo fin troppo bene. Ma Connell e Marianne non sono nulla di preciso, sono ciò che si ottiene ammucchiando un po' alla volta quel che ero io e tante altre persone che ho visto o conosciuto. Sono il riassunto, forse imperfetto ma più che sufficiente, di chi eravamo noi che dieci anni fa, completamente disillusi da anni di discorsi degli adulti sugli effetti della crisi, tentavamo di affacciarci ad un futuro che sembrava proprio non volerci. Non so voi, ma a me tutto questo non sembra per niente poco.

Fuori, il suo fiato si alza in un velo sottile e la neve continua a cadere, come il ripetersi incessante dello stesso microscopico errore.

E poi, sparse ad un ritmo sostenuto, ci sono frasi come questa, in grado di ricordarmi il potere che hanno alle volte le parole di spaccarmi il cuore, e come in quelle circostanze dolore e conforto riescano ad impastarsi, diventando in fin dei conti proprio la stessa cosa. 

 


venerdì 17 giugno 2022

Le ricette della signora Tokue, Durian Sukegawa

Sentaro è un uomo di mezza età come forse ce ne sono tanti, in giro per il mondo, di quelli arrivati a tale fase della vita già stanchi, disillusi, pieni di rimpianti e rassegnati. I suoi pesi, Sentaro se li trascina sulle spalle ogni mattina sin dietro alla piastra rovente sulla quale per ore cuocerà i dorayaki, tipici dolci giapponesi simili a dei pancakes ripieni. A Sentaro i dolci nemmeno piacciono, e dietro quella piastra si sente incastrato: ripete i gesti meccanicamente, da anni sempre gli stessi, preparando l'impasto come il vecchio proprietario del chiosco gli ha insegnato e farcendoli con una marmellata di fagioli azuki confezionata. Collocato in una zona industriale, c'è un discreto viavai di persone che talvolta si fermano ad acquistare un dorayaki prima o dopo il lavoro; soprattutto, nelle vicinanze c'è una scuola e qualche gruppetto di studentesse adolescenti si ferma ogni giorno a far merenda, riempiendo l'aria col loro chiacchiericcio allegro. Sentaro non sopporta neanche loro, le trova chiassose, spesso maleducate - tutte tranne una, Wakana, più silenziosa e discreta.

Se Sentaro sopporta tutto questo è perché in realtà non ha scelta: sin dalle prime pagine capiamo che la sua vita ha preso una piega molto diversa da quella che lui stesso da giovane immaginava, che niente è andato come lui avrebbe voluto, che delle scelte sbagliate l'hanno lasciato con un debito da ripagare tramite quel lavoro, un dorayaki dopo l'altro.

Di fronte a lui, sull'altro lato della strada, svetta un grande albero di ciliegio. E' nel momento della sua piena fioritura, quando sotto di esso compare al mattino - col naso per aria ad ammirarne i fiori - una vecchina piccola piccola, la quale, un giorno, si avvicina non per acquistare un dolcetto, bensì per rispondere all'annuncio di lavoro che Sentaro ha esposto lì fuori in bella vista. Quell'annuncio è davvero rivolto a persone di tutte le età? chiede sorridente. , risponde indifferente Sentaro, senza neanche lontanamente immaginare che quell'anziana signora stia per candidarsi in prima persona. Quando se ne rende conto, fa del suo meglio per scoraggiarla senza tanti giri di parole: il lavoro è faticoso, ma lei quanti anni ha - settantasei -, mi dispiace non credo sia possibile. La vecchina, che naturalmente è la signora Tokue, torna imperterrita il giorno dopo, infilando sotto il vetro del chiosco un piccolo contenitore: è un vasetto di marmellata di fagioli azuki preparata da lei, sono cinquant'anni che la preparo. Non appena Tokue si allontana, Sentaro getta il contenitore nella spazzatura, talmente trova assurda quell'insistenza, ma poi la curiosità ha la meglio e cede alla tentazione di assaggiarla. Lui, che non ama il dolce, resta folgorato da sapori che sente in bocca per la prima volta, e che nulla hanno a che fare con la scialba marmellata industriale che ha sempre usato per i suoi dorayaki.

Così la signora Tokue inizierà a lavorare nel chiosco di dorayaki, dall'alba al momento dell'apertura, solo per preparare insieme a Sentaro la sua marmellata di fagioli azuki artigianale. A Tokue non interessa dello stipendio, che si fa addirittura abbassare, è solo che ha sempre sognato di lavorare in un posto così. Tutto ciò che Sentaro ha odiato per anni, riempie di gioia il cuore di Tokue: lei ama i dolci, ama l'allegria delle giovani studentesse, ama ogni singolo gesto che compie con cura e dedizione. L'esperienza lavorativa di Tokue non durerà a lungo, ma quel tempo basterà affinché lei lasci un segno indelebile in Sentaro ed anche in Wakana, che troverà nella signora Tokue un punto di riferimento di cui in quel momento aveva bisogno. A Sentaro e Wakana viene dato il privilegio di entrare nella vita della signora Tokue e di far propri i preziosi insegnamenti che lei si è dovuta impartire da sola, per reagire ad esperienze difficili anche solo da immaginare.

Quest'anno l'ho iniziato trascorrendo quattro lunghi mesi nella Russia di Tolstoj - da gennaio ad aprile, in cammino per quel continente che è Guerra e Pace. Non sono mai stata capace di portare avanti più letture simultaneamente, quando ci ho provato è sempre andata a finire che mi concentrassi sul libro che in quel momento mi prendeva di più. Capirete bene che, dopo quattro mesi dentro la stessa penna, non vedevo l'ora di assaggiarne un'altra: Le ricette della signora Tokue mi aspettava da tempo, ed io per incontrarla aspettavo la primavera - il motivo l'ho ampiamente spiegato nel post precedente. Così, all'inizio di maggio, ho finalmente preso in mano questo romanzo, che ha dato inizio ad uno sprint voracissimo durato poi tutto il mese.

Tentare di spiegare dove si nasconde la bellezza del romanzo di Sukegawa - personaggio particolare: poeta, scrittore e clown, laureato in Filosofia Orientale ma anche in Pasticceria - equivarrebbe a rovinare per chi intendesse leggerlo l'emozione che ho potuto vivere io scoprendolo da sola. L'unica cosa che mi preme sottolineare, a costo di sembrare presuntuosa, è che nel personaggio di Tokue non ho trovato degli insegnamenti; come lei, quelle stesse cose me le sono insegnata da sola dai vent'anni in poi, vuoi per intuito, vuoi per spirito d'adattamento o di sopravvivenza. Ciò non significa che riscoprirle attraverso i suoi gesti e le sue parole sia stato inutile, per me, tutt'altro: è stato come una mano sulla spalla quando ti senti un po' sola ed hai la certezza che nessuno se ne accorga. E' stato un momento di conforto, di sostegno da parte di qualcuno che ha vissuto molto più di te, e cose molto più difficili, e da lontano ti guarda e dice: non è sciocco ciò che pensi, non è ingenuo questo modo di guardare, non vale meno degli altri il modo in cui hai deciso di abitare il mondo. Anche quando ci si sente abbastanza saldi su ciò che ormai si è, è incredibilmente benefico incontrare qualcuno - anche solo attraverso una pagina di carta - in grado di rassicurarti che va bene così. Che non sei poi così indietro, che anzi sono in troppi ad essersi persi dei pezzi fondamentali. E' stato uno sguardo d'intesa, quello passato tra me e Tokue, con occhi colmi d'emozione ed un sorriso tra il furbo ed il felice. Si tratta di insegnamenti minori che poi cambiano tutto il resto, e per ogni volta che mi capiterà di metterli in dubbio saprò da chi tornare.

Per me la letteratura giapponese rappresenta sempre una parentesi di calma, della quale vado in cerca in momenti specifici - quando ho bisogno di lentezza, di cura, della poesia delle piccolissime cose. Non sempre però ne esco soddisfatta: ormai ho capito che la narrativa giapponese contemporanea si muove su due binari, uno in grado di darmi ciò che cerco, l'altro in cui quella leggerezza si esaurisce in se stessa, lasciandomi con la sensazione di aver tentato di afferrare l'aria. Ecco, da questo punto di vista Le ricette della signora Tokue è senza dubbio il romanzo giapponese più bello che mi sia capitato di leggere negli ultimi anni, perché contiene quegli esatti ingredienti - cura, lentezza, leggerezza - raggiungendo al contempo uno spessore ed una profondità difficili da dimenticare. Non mi vergogno ad ammettere di aver versato lacrime più volte, durante la lettura, e ne sono stata felicissima perché non ricordavo neppure quand'era stata l'ultima volta che un romanzo arrivasse ad emozionarmi a tal punto. Da non trascurare neanche l'originalità dell'opera: Sukegawa ha raccontato qualcosa di cui non avevo mai, mai, mai letto in nessuna opera moderna o contemporanea. Il che stuzzica anche quel lato da lettrice che si sente appagata nel poter riflettere su cose nuove, nel rendersi conto di quante ancora ne ignoro o non ho preso doverosamente in considerazione.

Concludo dicendo che sono consapevole che non tutti potrebbero venir toccati allo stesso modo da questa storia. Tuttavia, credo che incontrare Tokue possa far bene davvero a tutti. Che i suoi insegnamenti minori, come ho deciso di chiamarli io, vi si adagino dentro. Se non vi parlano adesso, arriverà un momento in cui saranno proprio ciò di cui avrete bisogno.

Da questo romanzo è stato anche tratto un film, "Le ricette della signora Toku", scritto e diretto da Naomi Kawase e presentato al Festival di Cannes nel 2015. Attualmente il film è disponibile su Prime Video, purtroppo solo col doppiaggio italiano che a mio avviso toglie molto all'atmosfera. Tra le due opere ho preferito il libro, che mi ha coinvolta ed emozionata di più, ma la trasposizione è riuscita a rispettarne contenuto e personaggi, dunque se avete amato la storia ne consiglio la visione.